Il distopico mondo di D.
D. era un giovane di gracile costituzione; bastava un soffio di vento per farlo ammalare. Aveva i capelli lunghi color noce, e degli occhiali tondi che poggiavano sul suo nasino all’insù. Gli piacevano il cinema e la letteratura, sognava di diventare un umanista; nel frattempo, faceva l’ingegnere. Faceva l’ingegnere perché, nella società in cui viveva, delle lettere e del cinema non importava a nessuno e l’arte era stata dissacrata.
L’arte era stata dissacrata dal consumo, mercificata, e nei musei circolavano opere che valevano fior fior di quattrini solo per il fatto di portare il nome di un autore di successo. Nella società in cui viveva, a nessuno importava più delle lettere perché nessuno si curava più della spiritualità: l’unico dio verso il quale la società tendeva era il dio Mercato, generato da un processo di alienazione che aveva svalutato il mondo degli uomini e messo in valore il mondo delle cose.
Mercato era un dio che accoglieva in sé tutte le contraddizioni, che aveva il ventre fertile di Eros, e la potenza autodistruttiva di Thanatos. Animava la materia e affondava le radici nell’inconscio degli esseri umani: si fondeva con la loro interiorità. Regolato da leggi di cui solo pochi eletti erano vagamente a conoscenza, il dio Mercato si rivelò a livello pratico incontrollabile. La sua consorte era la dea Tecnica, anch’essa insita nella dimensione inconscia degli esseri umani, e che si componeva delle medesime tendenze alla vita e alla morte. Gli uomini occidentali erano invasati come baccanti e, muovendosi a passo di danza meccanica, fabbricavano aggeggi di ogni sorta, mossi dal desiderio ardente di soddisfare bisogni che si ricreavano senza sosta. Il culto era fondato sull’avanzamento delle cose e sullo sviluppo di tutte le discipline scientifiche, come la medicina e la farmacologia, che cercavano l’antidoto alla morte ed al dolore, l’economia, a diretto contatto col culto e che insegnava a sfruttarlo, l’ingegneria, che dava volti sempre diversi ai gusti e alla comodità e via discorrendo.
Nella società in cui D. viveva, a nessuno importava delle lettere o della filosofia: la svalutazione del mondo degli uomini comportava la trasvalutazione di tutti i valori morali: i nuovi valori si ispiravano ad una dimensione tutta materiale insensibile al bello o al buono o al giusto: tutto era stato risucchiato dal vortice del relativismo e gli esseri umani sembravano vivere in un presente permanente, dimentico del passato. In quel mondo che viveva di materia organica, gli elementi rimanevano sempre gli stessi e cambiavano solo le innumerevoli combinazioni con le quali aggregarli e gli uomini lavoravano come singole formichine dominate dall’intimo desiderio di accumulare denaro per soddisfare i bisogni generati dal culto del Mercato.
Non esisteva il concetto di identità individuale; tutti gli uomini si identificavano in un un’unica visione, quella che era alla base del culto del proprio dio, ed era alla luce di questa visione che acquistavano gli abiti con i quali vestirsi e ascoltavano la musica con la quale distrarsi e compravano il cibo con il quale nutrirsi o le automobili con le quali spostarsi. La maniera di esprimersi era divenuta omogenea, conforme in tutto l’Occidente, che si estendeva in un territorio vastissimo; lì, i confini culturali non esistevano. La popolazione occidentale, dunque, viveva devota ad un unico culto, quello del dio Mercato.
Nella società in cui D. viveva, il sogno comune a tutti gli esseri umani era quello di trovarsi dinnanzi ad un enorme centro commerciale e di disporre di ingenti somme di denaro per poterne acquistare le merci. La popolazione si componeva di un inesorabile ceto medio e di una classe “illuminata” che viveva al vertice del sistema e che ne giostrava i fili: la classe media, che si impoveriva progressivamente, tuttavia non contestava il fatto che alcuni uomini disponessero di capitali pari a quelli posseduti da intere nazioni: erano rapporti di produzione necessari e universali. Chi vi si opponeva veniva ripagato con l’indifferenza e gli veniva affibbiata l’etichetta del “comunista” che si nutre di favole e miti appartenenti ad un passato ormai morto e sepolto. Nonostante la svalutazione del mondo degli uomini, questi ultimi erano rimasti tali biologicamente. Anche se le macchine che producevano si rinnovavano e si evolvevano alla velocità della luce, il loro apparato psichico rimaneva invariato. Era per questo che, nonostante il tacito accordo tra oppressori e oppressi, gli oppressi covavano voglie e desideri che stagnavano e ristagnavano per la mancanza dei mezzi con i quali appagarli. Erano voglie generate da quello stesso dio, che aveva diffuso i prodotti su scala mondiale e che tramite i mezzi di comunicazione stimolava appetiti generati dalla fantasia e non dallo stomaco.
D. ricordava ancora di essere un uomo e durante la sua giovinezza si era lasciato ispirare dai grandi classici del passato. Si dilettava a speculare e rosicchiare fino al midollo tutto ciò che era di natura metafisica ma non trovava mai compagni “di gioco”. L’abbandono dell’interiorità e la messa in valore del mondo delle cose lo preoccupavano, così come lo preoccupava il senso di alienazione generato dal sentirsi il solo a riuscire ad elevarsi da quel presente permanente in cui tutti gli uomini avevano ben piantati i piedi. Si era innestato in D. un meccanismo di difesa che lo aveva portato ad abbandonare per gradi quel mondo fatto di umanismo che gli accendeva i sensi come luci di natale, perché la strada che aveva intrapreso si faceva sempre più stretta e si riduceva lo spazio per muoversi liberamente tra le sue passioni. Più cresceva e diventava bravo nel suo mestiere, meno tempo il dio Mercato lasciava ai suoi “perché”. In compenso, lo riempiva di denaro con il quale poter acquistare la maggior parte della roba che gli altri uomini desideravano di possedere, ma di tempo ne aveva sempre meno e il suo lavoro, grazie alla fitta rete di comunicazione, lo seguiva anche tra le mura di cara. Più passavano gli anni e più D. sentiva di somigliare ad un ingranaggio: i suoi conflitti interiori, che si snodavano in una lotta a mani nude tra ciò che lui sapeva che la natura volesse da lui e ciò che la società pretendeva che egli fosse, toglievano fluidità ai suoi movimenti e lo costringevano ad azioni materiali ripetitive, simili a cerimoniali, che lo aiutavano a contenere il disagio emotivo generato dai suoi impulsi più intimi. Lavava le mani come fosse un infermiere e torturava gli interruttori della luce. Teneva le matite ben temperate sulla scrivania e le allineava per categorie cromatiche.
D. era sempre stato un amante della speculazione: la maggior parte del tempo, durante la sua giovinezza, lo aveva speso interrogandosi sulle sorti degli esseri umani. Gli piaceva analizzare i loro percorsi affidandosi alla storia e ai trattati dei grandi pensatori dei secoli scorsi. Questi grandi uomini, che si erano occupati di filosofia, sociologia o altre scienze umane applicate all’economia, e che per anni avevano tentato di valutare gli sbagli del genere umano e cercato di deviarne i percorsi, denunciandone i vizi, oramai sembravano a D. sempre più lontani e superati. Questi uomini, pensava D., vivevano in epoche in cui esisteva ancora qualcosa a cui aggrapparsi, ma ormai si era convinto dell’irreversibilità, della fatalità di un percorso di fronte al quale non restava altro da fare che prenderne atto, affermandone in modo radicale la vacua razionalità.
Era un pomeriggio di maggio e, sulla città intrappolata da un cielo grigio di fumo, il sole posava i suoi raggi che si spandevano sull’asfalto grigio topo della grande piazza. Il Duomo dormiva adagiato sui piloni, con i suoi rosoni incorniciati dagli archi gotici; il ferro scuro dei cartelloni pubblicitari scintillava tra uomini in giacca e cravatta, snervati dagli intervalli dei semafori, attenti agli orologi, con i loro caffè lunghissimi in bicchieri di cartone dagli stemmi di giganti americani. Giovani fanciulle dai capelli biondo oro ma neri sulla cute, passeggiavano svogliate o si fotografavano con le loro belle gambe avvolte in jeans costosi e lavorati dai ragazzini a Oriente, scansando il volteggio dei piccioni.
Giunse la voce di un uomo, munito di megafono e che si scorgeva appena dall’alto della torre campanaria, ad interrompere quel via vai di animali ben educati che rispettavano le leggi della città. Quel Quasimodo vestito di tutto punto, con l’abito grigio e la camicia bianca, aveva il nodo della cravatta rossa allentato oltre ogni dire, lunghi baffi e una chioma castana assai folta e spettinata. Se qualcuno di coloro che osservavano dal basso della piazza -e che dall’alto del campanile apparivano come puntini- avesse osservato quell’uomo da vicino, avrebbe scorto nei suoi occhi la rivelazione palese della follia. Ma nessuno ebbe l’onore e ai nostri spettatori giunse solo all’orecchio una voce lontana che recitava senza esitazione, come ad un comizio. Riportiamo le parole che si anteposero ad un’azione drammatica, la cui grandezza venne adeguatamente valutata solo molti anni dopo. Quella alla quale accenniamo è l’eredità intellettuale di un folle o, se preferite, l’eredità intellettuale di un uomo divenuto folle poiché schiacciato dalle troppe verità che non è stato in grado di sopportare.
“Un tempo si pensava valesse la pena di fare tentativi di cambiamento. Un tempo si viveva per qualcosa e si credeva che da un punto A si dovesse necessariamente giungere ad un punto B. Intendo dire che se prima l’uomo viveva in funzione di uno scopo, che potesse essere il paradiso o la scoperta scientifica che gli permettesse di capire il motivo della sua esistenza, oggi vaga in un nulla. Tra Ottocento e Novecento si è assistito alle denunce di grandi letterati, filosofi e scienziati che ci hanno spiattellato questa triste verità del nulla esistenziale dritto davanti agli occhi. Già da secoli Copernico ci aveva detto che non vivevamo al centro dell’universo, e altri che siamo solo un’infinitesima parte di esso, ma c’era ancora qualcosa in cui poter sperare di trovare un senso. Ma poi è giunto anche un tipo di nome Charles Darwin: lui ci ha detto che non solo non siamo il frutto della mente di un demiurgo e che nessun dio ci preferisce agli altri animali; siamo dei semplici funzionari della specie e che viviamo solo in funzione dei dettami che la natura ci impone. Darwin ha detto chiaramente che la natura non si cura dei sentimenti e degli scopi che con tanta cura perseguiamo durante tutta la nostra vita: lottiamo per la sopravvivenza a discapito dei nostri simili e tutto ciò che facciamo è indirizzato ad un unico scopo, la conservazione della specie. Del resto già Schopenhauer aveva filosofato abbondantemente su questa linea: nell’universo non c’è nulla di stabile e nulla che richiami alla logica con cui voi, poveri stolti, credete di condurre le vostre vite; la logica è solo un’invenzione che permette all’uomo di vivere lontano dall’angoscia. Questo ci ha detto e questo abbiamo incassato. Ed il colpo di grazia arriva qualche decennio dopo, quando Sigmund Freud ha gridato forte e chiaro che “l’io non è padrone in casa sua”: non siamo padroni di noi stessi, e ciò che crediamo di essere è il frutto di meccanismi inconsci ancorati alle nostre pulsioni animali. L’incivilimento non ci allontana dalla nostra natura di bestie. Ebbene, signori, il nostro gretto materialismo è il figlio delle verità a cui siamo giunti e che non siamo in grado di sopportare. Rimpinziamo le nostre vite di oggetti distraendo le nostre menti accumulando il denaro per procurarceli perché non ci è rimasto altro a cui aggrapparci. E cosa fare quando a tutto questo uno si sofferma a pensare? Alcuni opterebbero per il suicidio, ma io no. Io ho molto rispetto della natura che mi abita, è dunque mio compito autoconservarmi; ed è quindi necessario che io mi difenda. Io mi inchino a te, dio Mercato! E’ questo che la natura ha voluto da noi, è questo il frutto della ragione che distingue l’uomo dagli altri animali ed è stata la natura stessa a servirci sul piatto d’argento la prerogativa di questo dono. E’ stata essa stessa ad innestare la logica negli esseri umani e a dargli la facoltà di comprenderne la natura illusoria. Ed è per questo che mi inchino al tuo cospetto e che mi dichiaro tuo fedele servo, finché morte non mi separi”.
Seguì solo un tonfo.
Rosita Marino,VE