Perché dobbiamo dire #blacklivesmatter!
Negli Stati Uniti, la debolezza della comunità afro-americana ha portato gli stessi neri (per un utilizzo appropriato del termine) ad avere paura di loro stessi, delle loro origini e della loro posizione nella società del tempo. Già da tempo, infatti, il nero americano ha spesso rappresentato, nell’immaginario collettivo, il concetto dello schiavo nero, che è venuto a mancare a partire dalla fine della guerra d’indipendenza americana (1783) e la successiva approvazione della Costituzione degli Stati Uniti d’America. Questa Costituzione sanciva, con i suoi primi dieci emendamenti, la piena libertà individuale e l’abolizione della schiavitù. Da allora, quando ci si riferisce alla comunità nera implicitamente ci si riferisce alle accuse dei crimini più violenti, come rapimenti, violenze sessuali e saccheggi, paragonandoli addirittura poi a bestie prive di raziocinio e lume della ragione.
Con il passare del tempo, però, le cose non sono migliorate: il capolavoro cinematografico “Nascita di una nazione” (1915) ha contribuito pesantemente alla reticenza dello stereotipo dell’uomo nero che attenta alla vita civile, al bene della comunità, alla nascita della nazione. Proseguendo nel tempo, il potere dei media nella seconda metà del ‘900 ha spianato la strada a campagne politiche denigratorie nei confronti di quelle categorie che rivendicavano i loro diritti, fomentando l’ideale razzista e saziando il pubblico con notiziari pieni di sfilate di uomini di colore portati via in manette, dipingendo afroamericani, uomini neri e neri in generale come criminali, mostrando queste scene agli spettatori più volte di quanto converrebbe, come a dimostrare che siano tutti criminali. A partire da questo periodo, è stato inoltre coniato un nuovo termine, cioè “superpredatore”, volto ad identificare tutti i criminali neri, generalizzando però l’idea di una razza senza coscienza e senza empatia.
La dura campagna di repressione contro la comunità nera ha portato gli stessi afroamericani a sviluppare una forma di sindrome di Stoccolma, iniziando perciò ad appoggiare le idee che criminalizzano i loro stessi fratelli, diffidando persino di loro stessi.
Le campagne politiche del periodo hanno inoltre rafforzato l’idea di uno Stato più duro, che ha presto portato ad una militarizzazione dei corpi di polizia, investendo gli agenti di molto più potere di quanto gliene competesse (e di questi risultati, i nostri tempi ne sono testimoni). L’operato del democratico Bill Clinton nel 1994, ad esempio, ha portato ad un incremento della popolazione carceraria negli Stati Uniti da 1.000.000 a 2.000.000 unità circa, di cui almeno 880.000 afroamericani, vale a dire il 44% della popolazione totale. Il rafforzamento di queste politiche repressive ha contribuito ad un’idea di democratici sempre più oppressivi, tagliando fuori dai giochi le invettive dei liberisti (i quali furono sostenuti da Clinton nelle elezioni politiche del 1988 nella persona di Michael Dukakis), tramutando così il Paese da una fiera democrazia liberale ad un regime carcerario a cielo aperto.
La politica dei governi statunitensi è stata quindi caratterizzata da condanne sistematiche nei confronti di tutti i movimenti che combattevano per la giustizia, da Martin Luther King a Malcolm X a Fred Hampton, ucciso dalla polizia di Chicago davanti alla moglie, incinta.
La crescente condanna dei movimenti per i diritti umani e per i diritti degli afroamericani non ha risparmiato neanche quelle combattenti, come ad esempio Assata Sakur e Angela Davis, che hanno fatto della liberazione della comunità afroamericana la loro croce, divenendo per altro perseguitate politiche e classificate come “terroriste interne” dall’F.B.I.
Questo breve excursus nella storia della comunità afroamericana è volto a sensibilizzare tutti noi, giovane menti, a far fronte comune contro il razzismo che vive ancora oggi, e che stiamo fronteggiando grazie alle proteste in ricordo di George Floyd, ucciso da un poliziotto del distretto di Minneapolis solo perché nero. Casi del genere, nella storia degli Stati Uniti ce ne sono stati tantissimi: ad esempio, nel 2012 il diciassettenne Trayvon Martin, che stava tornando a casa della fidanzata di suo padre da un minimarket, venne ucciso a colpi di arma da fuoco da una guardia che, proprio perché nero, gli sparò con diffidenza, nonostante la polizia gli ordinò di non inseguirlo.
Tutta la storia delle persecuzioni della comunità afroamericana, dalle origini sino ai giorni nostri, è stata degnamente registrata nel documentario Netflix “XIII Emendamento” (2016), che spiega in modo chiaro e conciso, con interviste ed interventi delle persone che hanno combattuto in prima persona le ingiustizie scagliate ai neri durante il corso degli anni.
Ciò che rimane da dire, a tutti noi, è che dobbiamo fare tesoro di questi episodi, uscire dalla nostra indifferenza e tentare di comprendere con passione il sentimento di libertà che unisce tutta la comunità nera d’America, da secoli vittima di soprusi da parte dei bianchi, e che adesso sfocia in un giusto urlo di protesta, gridando con forza #blacklivesmatter!
Alfio Sanfilippo, IV BU