«Perché ti rifiuti di ascoltarmi?»

«Patroclo.» Achille lo fermò, per qualche secondo la tenda fu invasa solo dal silenzio.

«Io non combatterò. Agamennone ha offeso il mio onore e per questo pagherà.»sembrava irremovibile. Patroclo si avvicinò, lento. Poi, gli mise una mano sulla spalla. Fece un respiro profondo prima di ribattere.

«Achille, non sarà solo Agamennone a pagare, ma tutti gli Achei, desideri questo? La nostra disfatta?» Achille si allontanò, evitando lo sguardo del compagno.

«Agamennone è il re, l’unico e il solo.» cominciò con una punta di scherno. «Si considera il migliore degli Achei, migliore di me. Peccato che questa convinzione gli farà perdere la guerra. Perderà anche i suoi soldati, uno alla volta. Rimpiangerà di avermi mancato di rispetto.» Patroclo si avvicinò di nuovo. Era disorientante e stremante parlare con Achille. Lui provava a discutere, a convincerlo… a volte confidava di aver fatto breccia nei sentimenti dell’eroe, ma la verità era che più il primo cercava di farlo tornare a combattere, più il secondo si allontanava, si trincerava ancora di più nelle sue convinzioni. E in quel momento, dopo che il figlio di Peleo pronunciò quella frase, Patroclo capì che c’era solo un modo per risolvere la questione.

«Combatterò io al tuo posto.»
Così, poco dopo, Achille lo stava aiutando a prepararsi. Patroclo indossò la tuta di bronzo -fabbricata dal dio Efesto in persona- e Achille gli porse lo scudo, per poco le braccia non gli cedettero, era molto più pesante e più imponente del suo. Prese la spada che tanto gli aveva guardato brandire, in battaglia. Era ornata da borchie d’argento. Provò ad impugnare la sua lancia ma non ci riuscì, era troppo pesante.

Mancava soltanto l’elmo. Achille aprì un baule e lo prese.

«Sta attento.» e Patroclo annuì, deciso. Achille glielo porse e lui si piegò per indossarlo, soffermandosi a osservare con attenzione quell’elmo che tanto spaventava i Troiani, con la sua criniera di cavallo rosso scarlatto che si piegava alle forze del vento. Poi uscì dalla tenda e si affrettò a raggiungere i Mirmidoni, per condurli a combattere.

Fu travolto da un insieme di sensazioni frastornanti. Lo stridore delle lance, il rumore che provocava il ferro delle spade quando si incrociavano. Poi ancora, la polvere che si alzava, smossa dalla calca di soldati che si scontravano e poi delle ombre, delle presenze.

Gli Dei erano in mezzo a loro. Stavano combattendo, usando gli umani come burattini.

Patroclosi buttò nella mischia a capofitto. Per tre volte si slanciò verso il nemico e ogni volta uccise nove troiani. Quando stava per attaccare per la quarta volta però… qualcosa cambiò. Si sentì come se qualcuno lo stesse svuotando, le gambe gli tremarono ed ebbe un capogiro, la vista gli si appannò e i suoni divennero ovattati. Cosa stava succedendo?

Si voltò e vide Apollo che lo fissava immobile, sorridendo. Era stato lui.

Cercò di avanzare ma non ci riuscì, i suoi piedi erano inchiodati al terreno. Poi, d’un tratto, provò un dolore lancinante alla spalla. Si accasciò, in bocca sentiva il sapore del sangue. Euforbo estrasse la sua lancia dal suo corpo e andò avanti, attaccando altri greci. Lui cercò di allontanarsi ma non ci riuscì, era troppo debole.

Riuscì invece a scorgere, poco lontano, una figura corpulenta che si avvicinava ad Apollo. Si trattava di Efesto, ne era sicuro. Non riuscì a sentire le loro parole.

Solo più tardi, nei poemi, si narrerà di come il dio del fuoco, vedendo il figlio di Menezio in difficoltà, decise di affrontare Apollo, perché non poteva permettere che nessuno raggiungesse gli Inferi prima del tempo indossando un armatura da lui fabbricata. Si racconterà di come Apollo fu convinto da Efesto a ritirarsi e di come quest’ultimo rinvigorì il giovane eroe Patroclo, aiutandolo.

Patroclo vide Apollo ed Efesto svanire tra le ombre. Percepì quella strana sensazione che tanto i guerrieri più esperti avevano descritto con nostalgia e, forse, anche con una punta di terrore: il segno dell’intervento divino. Una potente scossa gli attraversò tutto il corpo e fu come risorgere dalle ceneri. Non provava nessun dolore, si sentiva… potente.

Ettore incrociò il suo sguardo e tutto passò in secondo piano. La battaglia che infuriava in mezzo a loro era solo uno sfondo.
Si avvicinarono, spada alla mano. Ettore menò il primo fendente, Patroclo lo schivò. Era agile, agile come non lo era mai stato. Lui provò ad attaccare Ettore ma quello si scansò e il colpo sferzò l’aria. Adesso tutti i guerrieri si erano fermati, accalcandosi per assistere allo scontro.

Ettore partì alla carica e menò un altro colpo, mirando alla sua gola. Patroclo riuscì a indietreggiare ma perse l’equilibro e cadde a terra. In quel momento l’eroe troiano torreggiava su di lui, con la spada sguainata.

Ma Efesto, che ormai aveva preso a cuore le sorti del giovane Patroclo, indirizzò la lancia del possente Aiace, che colpì Ettore al ventre.

Erasuccesso tutto troppo velocemente. Una lancia di bronzo si era materializzata  e aveva colpito Ettore, che si era accasciato a terra, inerme.

Tutto questo proprio un attimo prima che il troiano lo colpisse, proprio nel momento in cui era convinto di essere spacciato.

Alla vista del loro principe ucciso, i guerrieri troiani si ammutolirono.

Patroclo si rialzò ma nel farlo perse l’elmo. Tutti se ne accorsero, qualcuno gridò il suo nome, i Mirmidoni erano increduli, ma durò poco. L’attenzione tornò a concentrarsi sul corpo di Ettore.

Aiace si fece strada tra le file di soldati e concesse ai troiani nove giorni di tregua, per  permettergli di organizzare i funerali. 

Patroclo si ritirò per ultimo. Adesso Achille non era solo il più valoroso tra gli Achei… morto Ettore non c’erano più dubbi, il figlio di Pelide era il miglior guerriero di qualsiasi esercito.

Peccato che quel guerriero non volesse combattere.

Qualche ora dopo lo scontro, Patroclo accompagnò Achille ad un consiglio convocato da Odisseo. Entrarono nella tenda e si sedettero al tavolo. Si accomodò su una sedia in legno. Achille era alla sua destra, con un espressione seria in volto. Agamennone era invece di fronte a lui, i due si stavano volutamente ignorando. Dall’altro lato del tavolo, invece, si sedettero Menelao, Diomede e Aiace. Odisseo rimase in piedi, mantenendo una postura composta, mentre impugnava lo scettro con la mano destra. La mano sinistra era a chiusa a pugno, come per nascondere qualcosa. 

«Odisseo, prima che tu dica qualsiasi cosa, sappi che io non combatterò. Sono venuto solo per affidare il comando dei Mirmidoni a Patroclo.» e per poco il cuore non gli uscì fuori dal petto. Lui, guidare gli Achei? Un conto era farlo sotto le vesti di Achille, ma guidarli in quanto Patroclo? No, era… era sbagliato.

Non doveva essere lui a condurre i Mirmidoni.

Achille, d’altro canto, non avrebbe mai acconsentito a combattere.

«Non sono uno stolto, Achille. So bene che non combatterai. Vi ho chiamati tutti qui perché… mi è venuta un idea. Un’idea per abbattere definitivamente Troia.» e dicendo questo, scoprì il palmo della sinistra, mostrando a tutti un giocattolo di legno, uno di quelli con cui giocano i bambini.

Un cavallo di legno.

Elena Carzan,II D

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